Ho scritto tutto ciò che segue, prima dell’era COVID, che ha reso obbligatoria quella che una volta era una scelta personale e che, per chi la pensa come me, continua ad essere una modalità piena di significati da “diversamente elaborare”. Riporto qui le mie parole di due anni fa, perché penso che siano più attuali che mai per coloro che sono stati costretti a fare i conti con le “urgenze” della pandemia.
Sempre più spesso mi imbatto in persone che si dichiarano propense alla cremazione. Ragioni:
- – ecologiche: non si imbratta l’ambiente, non si toglie spazio
- – individualistiche: così posso portarmi l’urna a casa (… ed evitarmi un’andata al cimitero!)
- – romantiche: mi piace incontrarmi con l’universo e far spargere le mie ceneri in mare, al vento, nell’acqua, su dalla montagna ecc.
Il diffondersi di questa nuova cultura mi ha portato a riflettere sull’argomento. Mentre rispetto profondamente le opinioni di tutti quelli che sono a favore della cremazione, nel contempo però mi piace chiarire a me stessa il perché io preferisca la classica sepoltura.
Personalmente, trovo traumatizzante consegnare a qualcuno la salma (quasi ancora calda, almeno nel cuore di chi sopravvive) e vedermene restituire dopo qualche ora le ceneri: mi sembra un’operazione simile a un servizio e la trasformazione artificiale del defunto in pochi etti di polvere, mi arriva come una sorta di violenza sulla natura e comunque troppo prematura e accelerata per la piena accettazione della perdita.
La mia tradizione, quella di Napoli, non prevede né la tumulazione, che richiede un tempo di venti anni per la completa mineralizzazione della salma, né l’inumazione che ne prevede dieci. Per tradizione invece, mi aspetto che dopo la sepoltura ci sia un rito di esumazione della salma a distanza di diciotto mesi: la bara viene riaperta, lo scheletro pulito, disinfettato, avvolto in un lenzuolo e definitivamente messo in un loculo che lo accoglie e che contiene anche analogo epilogo di quelli che sono stati o saranno i familiari stretti.
Tale procedura, a cui ho assistito negli anni, mi ha sempre dato la percezione positiva di un ciclo vitale che si conclude: confrontare il ricordo della salma appena seppellita con lo scheletro che la stessa è diventato dopo un anno e mezzo, diventa a mio parere una tappa fondamentale per l’elaborazione del lutto, ma anche un momento di intima riflessione sulla vita e sulla morte. Il parente entra in contatto con la realtà e si abitua a vederla in faccia, senza temerla come un tabù. Lo scheletro, inoltre, ti dà la percezione visiva e concreta di quella parte nascosta di noi che non siamo abituati a vedere e che pure ci appartiene.
Un’altra caratteristica del rito funebre a Napoli è il fatto che il morto non viene vestito, ma deposto nella bara col pigiama. Anche prima delle esequie, se si è in casa, la salma viene esposta in pigiama e sotto le coperte. Questa immagine che mi porto dentro, di tutti i morti di famiglia, mi ha sempre trasferito nel cuore un senso di pace. In definitiva, il tutto rinviava all’idea di un sonno lungo che il defunto intraprendeva ed il sonno, come si sa, è seguito dal risveglio.
A livello inconscio, il morto in pigiama non era un vero e proprio morto, ma una sorta di dormiente, che prima o poi si sarebbe risvegliato. Inoltre la cura del corpo, prima vestito (sia pure col pigiama) per la bara, poi ripulito e sistemato da scheletro e infine posto accanto ai familiari stretti, manteneva, secondo me, il giusto legame tra i parenti e il defunto, favorendo, attraverso questa ritualità, la piena elaborazione del lutto per i familiari in vita.
Certo, tutto questo richiedeva impegno e tempo dedicato! Due parole grosse per la nostra epoca, dove la fretta ci ha abituati a saltare tutte le operazioni inutili che ci fanno perdere tempo.
Così, qualsiasi discorso sofisticato sulla cremazione viene tradotto dalla pancia delle mie orecchie in queste parole molto povere: il defunto è morto e non c’è più niente da fare, visto che già con la morte non ci vado tanto d’accordo e insieme al dispiacere ho tante altre cose da fare, mi piacerebbe chiudere al più presto la pratica Esequie, per questo tanto vale accelerare i tempi e fare un piacere a tutti: al morto che arriva più presto al suo biblico stato di cenere, a noi parenti che la chiudiamo qui e non ci pensiamo più, e al mondo a cui non togliamo spazio.
Inoltre, l’individualismo odierno ci allontana dalla dimensione collettiva del cimitero, facendoci trovare assai comodo (per me macabrissimo!!!) gestire l’urna in maniera privata, senza essere costretti ad estenuanti visite al cimitero, dove si sa, c’è il business dei fiori e delle regalie a chi ti mantiene il loculo in maniera decente. Ci si dimentica, ad esempio, che in tal modo si impedisce ad altri di riservare uno spazio personale al defunto, con visita dedicata.
Ho nelle orecchie molti commenti sarcastici sullo scempio delle pratiche funerarie, che intenzionalmente dilatano il tempo del lutto per ricavarne soldi. Sarà vero, ma l’importanza data al corpo, senza fretta e rispettandone i tempi naturali di dissolvimento, dà a me personalmente una sensazione di rispetto: per il morto e per il vivo… probabilmente perché mi porto dentro questo concetto basilare della mia religione che promette la resurrezione della carne e questo mi ha sempre indotto a dare al corpo la stessa importanza che riservo allo spirito, perché è attraverso il corpo che mi è stata consegnata una identità e così spero un giorno di riacquistarla davanti a Dio.
Se penso poi agli antichi Egizi, che addirittura mummificavano il corpo pur di conservarlo, le pratiche odierne mi sembrano ancora più sommarie, figlie di un pragmatismo che rassomiglio un po’ alla cultura dell’usa e getta: il corpo del defunto in fin dei conti non è più niente, non serve, tanto vale bruciarlo come si fa con la spazzatura!