Una delle prime cose che rimbalza agli occhi nei dialoghi tra le persone è la qualità della interazione che si stabilisce. Per molto tempo ho riposato sull’assunto che la distanza tra le persone fosse regolata dalla scelta del pronome personale con cui esse si parlano.
Pensando all’interazione come all’incontro tra due persone che hanno in mano ciascuna il capo di un filo, potremmo di primo acchito ritenere che l’uso del “tu”, del “voi” (molto usato al sud) o del “lei”, sia deputato a svelare quanto del nostro filo siamo disposti a srotolare per fissarci sulla giusta (per noi) distanza dall’altro.
Ci sono interazioni ideali in cui l’altro ci concede proprio la porzione di filo che noi gradiamo di più; poi ci sono interazioni fastidiose, in cui ci sentiamo tirati dentro dal filo dell’altro; infine ci sono situazioni che ci mantengono spiacevolmente distanti dall’altro, che allunga a dismisura il suo filo per tenerci lontani.
Ricordo a questo proposito la prima volta che mi hanno dato del “lei”. Avevo quattordici anni, solo l’anno prima avevo dismesso le trecce da bambina e appena da qualche giorno avevo cominciato a mettere le calze velate da donna, ma sicuramente al “lei” ancora non ero pronta. La nostra insegnante di matematica, al quarto ginnasio, ci accolse così, con quel “lei” che voleva simulare un gran rispetto, a cui affiancava però un “bambina” con cui si riprendeva tutto lo spazio della sua autorità, confinandoci nuovamente nel limbo dei sottoposti.
Sì, proprio così, lei ci parlava in questo modo: “Bambina, lei…” Iniziava con un “bambina” accattivante che quasi ti evocava la maestra dell’infanzia e poi… zac… quando quasi tu eri pronta a regredire e a farti coccolare, ti apostrofava con quel “lei”, che recuperava una distanza ancora maggiore del “tu” pronunciato con noncuranza da tutti gli altri insegnanti. È forse da allora che ho associato l’entità della distanza all’uso del pronome. Inoltre, vivendo a Napoli, avevo modo di percepire la differenza abissale che intercorreva tra il “voi”, che attestava una rispettosa confidenza, e il “lei” che sanciva l’estraneità più assoluta.
Ho dormito così per anni su questa convinzione, fino a quando non mi sono interrogata sul perché di ricorrenti ambivalenze con cui di volta in volta accoglievo ora il “tu”, ora il “lei” dei miei contatti personali, fino a quando ultimamente ne stavo concludendo che il disagio percepito in alcune situazioni fosse imputabile all’avanzare della mia età, che mi faceva prediligere il “lei” in quei casi in cui ci fosse molta differenza di età tra gli interlocutori. Questa è la riprova che, dove non ci sia una riflessione dedicata, (anche sulle cose più stupide!) viene molto facile dormire su preconcetti che non mettiamo in discussione, anche quando questi preconcetti riguardano noi stessi.
L’ultimo episodio che mi è capitato, infatti, mi ha visto molto infastidita dal “tu” di un commesso assai giovane, che avrebbe potuto quasi essermi nipote. Allora ho sentito affiorare in me una pretesa di rispetto, che mi sapeva di antico, che non mi spiegavo, che istintivamente rifuggivo, e che perciò mi ha indotto a indagare sulle mie emozioni. Dopo lunga ed approfondita riflessione sono giunta a una scoperta veramente eccezionale, che cambierà le sorti del pensiero scientifico sulle relazioni sociali e cioè che, anche se il pronome stabilisce la lunghezza del filo, quello che fa la differenza nella piacevolezza dell’incontro è esclusivamente la modalità dell’interazione, che può essere di cordiale familiarità, di deferente rispetto o puntigliosa distanza a prescindere dalla scelta pronominale effettuata.
Possono esserci “lei” disponibili e accoglienti non paragonabili a “voi” distanzianti, oppure “voi” sinceramente affettuosi che hanno la meglio su “tu” frettolosi e superficiali. In ogni caso, una cosa ho adesso ben chiara nella mente: il “tu” che mi risulta assolutamente sgradevole, da qualsiasi età provenga, è quello supponente e arrogante di chi, facendo leva su un pronome che lo fa sentire autorizzato a una confidenza improponibile, può farti arrivare con disinvoltura tutta la sua scortesia.