Quando l’immagine ci aliena
Riempirci di tutto può significare, a volte, svuotarci di uno sguardo più attento alla nostra interiorità, lì dove il nostro nucleo vitale ci chiede di poter sopravvivere.

Quando ero bambina misuravo la gradevolezza di un libro dal numero di figure che lo riempivano. A mano a mano che si procedeva verso le scuole di ordine superiore, i libri di testo si infittivano di pagine senza immagini, avvilendo noi ragazzi che stavamo crescendo e inducendoci a rassegnarci alla pesantezza del testo.

Più tardi invece, arrivati alla fase in cui la massima aspirazione di un adolescente era quella di diventare grande, avere a che fare con libri corredati di poche figure era percepito come un traguardo, poiché attestava il nostro arrivo conclamato nel mondo degli adulti.

Crescendo, infatti, il mondo si aspettava da noi il conseguimento di una capacità di astrazione logica, che rendeva superflua o pleonastica l’immagine, come si verificava puntualmente nei testi accademici. L’apprendimento scolastico maturava in noi, a mano a mano che crescevamo, un’attitudine alla riflessione e alla masticazione delle parole lette.

Questo esercizio allenava il nostro pensiero critico che d’altro canto, una volta entrati nel mondo adulto, doveva fare i conti con una realtà più lenta, nella quale le nostre azioni di risposta agli stimoli, avevano il tempo di essere elaborate con sufficiente originalità e autonomia.

Oggi, invece, la massificazione mediatica del pensiero, a cui ci induce la società virtuale del web con i suoi doverismi di mercato, ci orienta sempre più a risposte automatiche e incontrollate che subiscono la pressione emotiva delle immagini.

L’attuale realtà ci parla con pochissime parole, il resto viene piuttosto espresso dall’immagine, studiata per condizionarci emotivamente. Vignette, foto, fiori e paesaggi impazzano sul web riportando in sovraimpressione solo poche laconiche parole. La centralità del messaggio è trasmessa non tanto dal sintetico testo, quanto dall’emozione che l’immagine trasmette.

E noi vediamo, ci lasciamo emozionare per un attimo e subito passiamo ad altro… alla fine della giornata avremo guardato decine e decine di immagini, di cui non ricordiamo più il testo e che non hanno lasciato in noi alcun segno e cioè, alcuna consapevolezza. Più andiamo avanti e più perdiamo dimestichezza con l’astrattezza delle parole, così le disdegniamo, non siamo più capaci di digerirle.

Quest’abitudine ad abbeverarci del mondo tramite le immagini, ha fatto sì che finissimo col percepire anche noi stessi, più che attraverso uno sguardo introspettivo, attraverso l’esteriorità dei selfie compulsivi con cui scegliamo di presentarci al mondo.

La tendenza all’ auto-esposizione, con cui ci diamo in pasto ai social, realizza però a mio avviso il paradosso che, mentre ci proiettiamo nell’immagine che ci ritrae o che ferma un momento della nostra esperienza, di fatto frantumiamo l’attimo che stiamo vivendo, estraniandoci da noi stessi. Perdiamo l’intensità, la spontaneità e la carica emotiva del momento.

Ed allora, oggi che riteniamo visivamente significante ogni attimo della nostra quotidianità e lo fermiamo in immagini studiate e finte, finalizzate più all’esibizione che al ricordo, le foto perdono la pregnanza che avevano una volta, quando le collezionavamo religiosamente nell’album di famiglia e rispecchiavano un momento di verità, e scompaiono miseramente nel mare di tutte le foto digitali, che sicuramente non stamperemo mai e che forse non guarderemo più.

Così alla fine, per valorizzare tutto, non assaporiamo niente.

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