Stare, restare, andare, scappare: le dimensioni psicologiche del viaggio
Con quale tipo di atteggiamento affrontiamo la vita, gli eventi in cui ci imbattiamo, le esperienze che ci capitano, le emozioni che ci attraversano? In questo articolo mi soffermo su come il nostro procedere può essere condizionato da una disposizione mentale di fondo, con cui rispondiamo alla vita.

La vita è caratterizzata dalla crescita e quindi dal passaggio da uno stadio fisiologico a quello successivo. In tal senso, la nostra esistenza si può configurare come un continuo viaggio che comincia col formarsi delle nostre prime cellule e termina con l’estinguersi del nostro ultimo respiro.

Di pari passo con lo sviluppo fisiologico, anche la nostra psiche ci accompagna in questa avventura e le due crescite s’intersecano, condizionandosi in maniera assai più importante di quanto non sembri.

In questa sede, però, non intendo soffermarmi sull’influenza della psiche sul soma, ma piuttosto su una disposizione soggettiva che caratterizza il modo in cui partecipiamo alla evoluzione della nostra persona.

Stare

Lo stare è il permanere in una emozione/situazione/contesto ed è la dimensione primaria del vivere. “Stiamo”, propriamente, in tutte le fasi della nostra crescita, sia in senso fisiologico, che psicologico, che esperienziale.

“Stiamo” nella nostra infanzia, nella nostra fanciullezza, giovinezza, maturità, vecchiaia, così come stiamo nella nostra esperienza del momento/storia/avventura/emozione/situazione.

Lo “stare” è la vita stessa a cui “acconsentiamo” e questo significa che siamo in grado di vedere, consapevolizzare e affrontare in maniera costruttiva anche gli eventi scomodi e/o dolorosi che ci accadono, come il dolore, la malattia, la perdita, la vecchiaia.

Al contempo, ogni fase è già proiettata verso quella che segue; ogni giorno siamo un pochino diversi dal giorno prima e questo avviene in tutte le dimensioni del nostro vivere: affetti che maturano, situazioni che mutano, amicizie e relazioni che, col nostro permesso, evolvono. Quindi il nostro “stare” è un permanere che però non è mai statico, ma contiene sempre in sé anche un “andare”.

Ma guardiamo un’azione intermedia.

Restare

Il “restare”, come si evince dalla parola stessa, fa pensare a un arresto di questo fisiologico andare. Per tal via, il “restare” finisce con l’andare contro la vita stessa, perché nega il movimento che le è connaturato.

Un tipico caso del “restare” è la nostalgia cronica, quella che ci fa sentire sempre il rimpianto verso un passato che non è più, o che avrebbe potuto essere e non è stato, oppure ci fa sostare troppo a lungo in un lutto, in una esperienza deprivante, in una situazione scomoda che ci crea frustrazione.

E’ fondamentalmente il tenere uno sguardo sganciato dal presente e volto a qualcosa che non è più o è stata una possibilità mancata.

Nel “restare”, invece di assecondare il dinamismo della vita, lo “blocchiamo”.

Ne conseguono rimuginii, fissazioni, malinconie e pericolosi ripiegamenti su se stessi. Con questa disposizione, infliggiamo un colpo letale alla nostra energia e alla nostra vitalità.

Ma procediamo nel circuito sano.

Andare

“Andare” significa affrontare il vero e proprio viaggio a cui la vita ci invita: il voltare pagina, il procedere, il lasciarsi incuriosire dalla novità, il mettersi in discussione, il fare progetti, il cambiare, l’esplorare il mondo centrando i propri obiettivi.

Per “andare”, abbiamo bisogno di liberare tutta l’energia vitale che ci appartiene per natura e che a volte rimane bloccata nel “restare” di cui abbiamo parlato prima, o nello “scappare” di cui parleremo di seguito.

Anche “l’andare”, come lo “stare”, rappresenta la dimensione sana della vita, ma non ripeterò mai abbastanza come, benché si configuri anche come la ricerca di esperienze nuove e varie, esso consista, però, essenzialmente in una dimensione mentale.

Molto spesso, invece, esso viene confuso con un movimento fisico ed esterno alla persona. Un caso tipico che può indurre in inganno è l’efficientismo ad oltranza, che a volte tiene occupata la persona a “fare”, per tutto il tempo quotidiano di vigilanza. Paradossalmente, in questo attivismo, potremmo dissimulare, allora, una sottile inerzia nella nostra evoluzione vitale, un’inerzia che invece di farci andare avanti, ci fa essenzialmente scappare.

Scappare

Quando una situazione/fatto/contesto sono percepiti come eccessivamente pericolosi perché farebbero emergere in noi sentimenti inaccettabili, mettiamo in atto dei meccanismi di difesa inconsci, che servono a proteggerci da questo rischio.

Si crea in tal modo un gap tra gli stimoli che ci fornisce la realtà e la nostra risposta libera e consapevole agli stessi e questo caratterizza quel salto nella coscienza, che se ci evita il rischio che ci fa paura, non ci permette però nemmeno di assaporare la vita e a volte può proiettarci verso un vero e proprio disturbo. Fuggiamo da quello che ci fa male, ma fuggiamo anche dalla vita stessa, di cui il male fa parte.

Lo “scappare” si realizza quando l’andare diventa un muoversi frenetico, un progettare continuo, un viaggiare da una meta all’altra senza mai fermarsi, un passare da un impegno all’altro pur di non “stare” nel momento attuale, o anche nel distrarci con condizionamenti interni della nostra mente, che in ogni caso ci allontanano dalla realtà del momento presente, catturandoci in percorsi mentali tortuosi e invalidanti che ci rimbalzano in un mondo interiore ossessivo, sofferto e deprivante.

In questo caso il nostro sguardo che, come nel “restare”, è sganciato dal presente, viene catturato spesso dal futuro, con tutte le preoccupazioni ad esso connesse. E’ questa la prerogativa di una serie di disturbi a base ansiosa, un tempo definiti genericamente nevrosi, i quali mimetizzano l’angoscia e il disagio originari che dilagano nell’inconscio, per dirottare la nostra risposta, dalla originaria fonte del problema a una serie di oggetti (fobie) o condotte tipiche (disturbi).

Anche se solo a un occhio esperto questo “scappare” può apparire evidente, la persona in disagio, però, può essere aiutata a poco a poco dal consulente familiare a consapevolizzare la propria sofferenza e ad accettarla come una parte incompiuta del proprio percorso personale, che potrà essere opportunamente completato con una psicoterapia.

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